Nell’arco di due sole giornate
riferisco di due avvenimenti culturali
decisamente degni di nota.
Il primo è
l’esordio romano dell’ensemble
spagnolo Los Elementos, impegnato
nella diffusione del patrimonio
musicale spagnolo del XVIII secolo, di cui
ho già parlato in passato per l’incisione
della zarzuela di José de Nebra in
prima mondiale, Vendado es amor,
no es ciego.
Un concerto
tenutosi presso la
meravigliosa quanto suggestiva cornice del
Refettorio dei Minimi all’interno
del monastero di Trinità dei Monti, nel
contesto della XVII edizione del Roma
Festival Barocco, il 14 dicembre 2024, dal
titolo La musica dei Borbone:
dall’Ebro al Vesuvio.
Il programma
prevedeva due
sinfonie da camera di Niccolò Porpora, l’op.
2 n° 3 in sol minore e quella in
do maggiore, op. 2, n° 2, la Triosonata in
Fa maggiore, op.5 n.6 di Händel e
due cantate.
Una, sacra, di
Francesco Corselli,
Rompa, señor, mi acento ed un’altra,
profana, di Josè de Torres, Sobre
las ondas azules, entrambe
interpretate dal bravissimo controtenore
Alberto
Miguéles Rouco, che dei Los Elementos
è altresì fondatore e direttore.
Ai violini, Claudio
Rado e Jaume
Guri Battle. Al violoncello Giulio Padoin ed
all’arciliuto, Leon Jannicke.
Un concerto
gradevolissimo e
rilassante, arrivato a conclusione di una
giornata che per la Capitale è stata
parecchio movimentata, per via dell’ennesimo
sciopero che ha paralizzato la
città mandando in completo tilt il traffico
cittadino, quasi completamente
disintegrato la pazienza dei più (che però
mugugnano solo a mezza bocca,
rassegnati) ed il sottoscritto, il quale,
per raggiungere il luogo del concerto
ha impiegato tre volte in più del necessario
il tempo occorrente alla bisogna.
Ma ne è valsa la
pena.
Assolutamente.
Poco più di un’ora
di pura
delizia per l’udito. Una sorta di massaggio
rilassante per l’anima. Questi sono
gli effetti di certa musica barocca di cui
non si dovrebbe fare a meno.
Alla fine,
meritatissimi applausi
per gli interpreti, che ci auguriamo di
avere ancora ospiti nella Città Eterna.
Non pago di cotanta
grazia, il
giorno dopo mi sono concesso un pomeriggio a
teatro. Come lo scorso anno, all’Argentina.
Sempre per Gabriele Lavia, che questa volta
presentava quel colossale monumento
qual è lo shakespeariano Re Lear.
Ambientazione
particolare, non
originalissima (seppur decisamente
simbolica), in un teatro abbandonato.
La cosa, a mio
modestissimo
avviso, in principio non aiuta molto lo
spettatore che abbia poca dimestichezza
con le faccende di teatro, specie nella
prima mezz’ora di spettacolo, che comunque
è recitato con tutti i crismi e mantenuto a
livelli altissimi dal primo all’ultimo
secondo.
Non era facile, non
è mai facile,
con quest’opera realmente corale, in cui non
c’è un solo protagonista. È la
follia del mondo ad esserlo tale, ed ogni
personaggio ne subisce gli effetti.
Lavia crea (come
d’abitudine) un
capolavoro interpretativo e sostiene il
resto della compagnia in un crescendo
di emozioni.
Il pubblico, in
sala, gradisce. E
molto.
Nell’arco di quella
prima mezz’ora,
come accennavo, si fa il callo
all’ambientazione ed ai costumi in linea con
il
decadimento della scena.
Dopo un po’,
infatti, non si bada
più all’estetica ma si viene assorbiti
magicamente dalla bravura (per l’appunto)
corale degli interpreti. Non c’è nulla fuori
posto, ogni cosa s’incastra
perfettamente in quella che poi è la visione
complessiva dello spettacolo, il
cui messaggio è chiarissimo: la guerra (in
questo caso quella tra le tre
sorelle, figlie di Lear) è sempre la
sconfitta di ogni cosa. Ciò che giustifica
la scenografia del teatro abbandonato sul
quale si muovono con studiatissima
tecnica tutti gli interpreti.
Colpiscono Mauro
Mandolini (il
Conte di Kent) e Luca Lazzareschi (il Conte
di Gloucester), come pure Andrea
Nicolini (il matto).
Le tre figure
femminili composte
da Federica di Martino (Goneril), Silvia
Siravo (Regan) ed Eleonora Bernazza
(Cordelia) rispondono bene all’intensità dei
rispettivi ruoli. Ben assortiti
Giuseppe Benvegna e Ian Gualdani,
rispettivamente Edgar ed Edmund.
Anche in questo
caso, applausi scroscianti
dopo poco più di tre ore e mezza di
rappresentazione, intervallo incluso, che
scorrono con energia, fino al tragico
epilogo.
Gabriele Lavia
sugli scudi,
amatissimo. Tornato a questo capolavoro di
Shakespeare dopo poco più di
cinquant’anni (vi figurava nella parte di
Edgar, diretto nel 1972 dal leggendario
Giorgio Strehler) Anziano come Lear, ma solo
in apparenza. Il maestro sembra
rimanere eternamente giovane ed in pieno
vigore.
Restiamo in attesa del suo prossimo impegno.
Siamo curiosi di vedere cosa ci riserverà
nella stagione successiva.
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