Tra le molte messe di
Joseph Haydn, la
Missa Cellensis in honorem Beatissimae
Virginis Mariae — composta intorno
al 1766 — occupa un posto singolare: non
solo per l’ampiezza e la complessità
della scrittura, ma perché segna un
punto di svolta nella concezione stessa
del sacro.
Haydn vi intreccia il rigore
contrappuntistico della tradizione con
un senso del dramma e della teatralità
che anticipa le grandi messe
“sinfoniche” della maturità. È una
musica che unisce il cielo e la terra,
la devozione e la ragione, il rito e il
teatro.
In questa nuova registrazione per
Alpha Classics,
René Jacobs restituisce alla
Missa Cellensis la sua doppia
natura: liturgica e drammatica,
collettiva e interiore. Il suo gesto non
impone, ma scolpisce. Ogni sezione — dal
Kyrie severo e sospeso al Gloria
espansivo, fino al Credo che alterna
slancio e introspezione — è costruita
come un edificio che lascia filtrare la
luce.
Jacobs insiste sulla
trasparenza delle linee: il
Kammerorchester Basel suona con
straordinaria chiarezza di prospettiva,
i fiati emergono come colonne sonore di
un tempio ideale, e gli archi sostengono
il discorso con elasticità e respiro. La
Zürcher Sing-Akademie è il
cuore pulsante dell’insieme: il suono è
ampio, compatto, ma sempre mobile,
capace di passare dall’invocazione più
intima all’esultanza corale senza
perdere coerenza.
I quattro solisti —
Mari Eriksmoen,
Kristina Hammarström,
Mark Milhofer e
Christian Senn — incarnano la
visione di Jacobs di una
“spiritualità della chiarezza”:
timbri puri, linee pulite, nessuna
enfasi estranea alla parola. In un
repertorio che spesso indulge nel
decorativo, Jacobs e i suoi interpreti
scelgono la sobrietà come via di
profondità.
Sul piano critico, la lettura si
distingue per il modo in cui ricompone
la dialettica tra
stile antico e
stile moderno, una tensione
centrale nel pensiero musicale del tardo
Settecento.
Haydn, nel 1766, vive già pienamente il
dilemma tra il contrappunto “alla
Palestrina” e la nuova sensibilità
galante. Jacobs ne fa sentire il
conflitto, ma anche la soluzione: la
fede come equilibrio tra ordine e
sentimento.
Dal punto di vista dell’architettura
sonora, la messa si apre con un Kyrie di
limpida austerità e culmina in un Agnus
Dei di dolente bellezza. Il “Dona nobis
pacem” finale non è un grido trionfale,
ma un respiro condiviso, un gesto umano
prima che liturgico.
Jacobs sceglie di non magnificare la
sacralità, ma di restituirla alla sua
dimensione fragile e luminosa: il sacro
come spazio di ascolto, non di potere.
Il risultato è una lettura che unisce
filologia e poesia,
razionalità e tenerezza. Haydn
emerge non come l’architetto rigido del
classicismo, ma come un uomo che cerca —
nella forma perfetta — una verità
emotiva.
Una
Missa Cellensis che, nella sua
chiarezza, ci parla del mistero
dell’essere umano più che della distanza
di Dio.