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© Gabriele Vitella

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S
enza l’Arte non potremmo essere vivi.


 
  19 Ottobre 2025

 
  L’etica della forma e la vita rovinata degli innocenti  
 

 

Raffaele Sollecito, che di giudizi mediatici se ne intende, ha pronunciato due frasi che meriterebbero di essere scolpite nei manuali di etica contemporanea — non per la loro eleganza retorica, ma per la loro cruda verità.
Dice: «Viviamo in un mondo dove si censurano battute fatte verso le minoranze, ma si può facilmente rovinare la vita di un innocente e poi far finta di nulla». E aggiunge, come se volesse dare il colpo di grazia: «Di fatto oggi il politically correct difende tutto e tutti, tranne chi non ha fatto nulla.»

Parole che suonano come una bestemmia in una società che ha fatto del “rispetto formale” la sua nuova religione laica. Non importa cosa tu faccia, o se tu sia colpevole o innocente: ciò che conta è dire le parole giuste, schierarsi dalla parte giusta, usare il linguaggio giusto.
È la grammatica morale del nostro tempo, dove la virtù si misura non sulla sostanza dei gesti, ma sulla correttezza del lessico. Il peccato non è più l’ingiustizia, ma la parola sbagliata.

Sollecito tocca un nervo scoperto. Perché la sua frase non parla solo di lui, ma di un’intera stagione della civiltà occidentale in cui l’ipocrisia si è travestita da sensibilità.
Viviamo in un’epoca in cui si può distruggere la reputazione di un uomo con un titolo di giornale, con un post, con una voce — e, una volta che il danno è fatto, ci si lava le mani come Pilato. La macchina del sospetto non ha retromarcia.
La sua frase — “si può facilmente rovinare la vita di un innocente e poi far finta di nulla” — è un atto d’accusa contro tutti noi, spettatori distratti che assistiamo al linciaggio morale come a una serie televisiva di cui conosciamo già il finale.

Quanto al politically correct, Sollecito coglie una verità sottile: ciò che era nato per difendere la fragilità umana rischia, talvolta, di diventare una corazza che isola invece di proteggere.

 Si è costruita una religione delle parole inoffensive, e ogni giorno si celebrano i suoi riti su Twitter e TikTok. Ma mentre ci affanniamo a sostituire le parole scomode con eufemismi, non ci accorgiamo che fuori dal vocabolario si continua a rovinare la vita delle persone — in silenzio, con una freddezza burocratica che nessun “trigger warning” potrà mai redimere.

Montanelli, se fosse qui, forse avrebbe sorriso amaramente.
Avrebbe detto che l’etica della forma è una forma gentile di censura, travestita da buona educazione.
E avrebbe aggiunto che la libertà non consiste nel non offendere, ma nel non avere paura di dire la verità.

Sollecito, con la sua voce pacata e un po’ stanca, ricorda che l’innocenza oggi non basta più. Bisogna anche piacere, conformarsi, scegliere le parole giuste per non turbare la sensibilità del tribunale popolare che abita nei social.
Ma la giustizia — quella vera, quella che dovrebbe abitare nelle aule e nelle coscienze — non può fondarsi sul consenso, né sulle mode morali del momento.
E se un innocente può ancora essere rovinato con la leggerezza con cui si scorre un video, allora il problema non è l’etica della forma: è la nostra indifferenza.

 

- Commento d’opinione ispirato a dichiarazioni pubbliche riportate da fonti giornalistiche (17 ottobre 2025). -

 
 
Gabriele Vitella
 
 

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