Raffaele Sollecito,
che di giudizi mediatici se ne intende, ha
pronunciato due frasi che meriterebbero
di essere scolpite nei manuali di etica
contemporanea — non per la loro eleganza
retorica, ma per la loro cruda verità.
Dice:
«Viviamo in un mondo dove si censurano
battute fatte verso le minoranze, ma si
può facilmente rovinare la vita di un
innocente e poi far finta di nulla».
E aggiunge, come se volesse dare il
colpo di grazia:
«Di
fatto oggi il politically correct
difende tutto e tutti, tranne chi non ha
fatto nulla.»
Parole che suonano come una bestemmia in
una società che ha fatto del “rispetto
formale” la sua nuova religione laica.
Non importa cosa tu faccia, o se tu sia
colpevole o innocente: ciò che conta è
dire le parole giuste, schierarsi dalla
parte giusta, usare il linguaggio
giusto.
È la grammatica morale del nostro tempo,
dove la virtù si misura non sulla
sostanza dei gesti, ma sulla correttezza
del lessico. Il peccato non è più
l’ingiustizia, ma la parola sbagliata.
Sollecito tocca un nervo scoperto.
Perché la sua frase non parla solo di
lui, ma di un’intera stagione della
civiltà occidentale in cui l’ipocrisia
si è travestita da sensibilità.
Viviamo in un’epoca in cui si può
distruggere la reputazione di un uomo
con un titolo di giornale, con un post,
con una voce — e, una volta che il danno
è fatto, ci si lava le mani come Pilato.
La macchina del sospetto non ha
retromarcia.
La sua frase — “si può facilmente
rovinare la vita di un innocente e poi
far finta di nulla” — è un atto d’accusa
contro tutti noi, spettatori distratti
che assistiamo al linciaggio morale come
a una serie televisiva di cui conosciamo
già il finale.
Quanto al politically correct,
Sollecito coglie una verità sottile: ciò
che era nato per difendere la fragilità
umana rischia, talvolta, di diventare
una corazza che isola invece di
proteggere.
Si è costruita una religione delle
parole inoffensive, e ogni giorno si
celebrano i suoi riti su Twitter e
TikTok. Ma mentre ci affanniamo a
sostituire le parole scomode con
eufemismi, non ci accorgiamo che fuori
dal vocabolario si continua a rovinare
la vita delle persone — in silenzio, con
una freddezza burocratica che nessun
“trigger warning” potrà mai redimere.
Montanelli, se fosse qui, forse avrebbe
sorriso amaramente.
Avrebbe detto che l’etica della
forma è una forma gentile di
censura, travestita da buona educazione.
E avrebbe aggiunto che la libertà non
consiste nel non offendere, ma nel non
avere paura di dire la verità.
Sollecito, con la sua voce pacata e un
po’ stanca, ricorda che l’innocenza oggi
non basta più. Bisogna anche piacere,
conformarsi, scegliere le parole giuste
per non turbare la sensibilità del
tribunale popolare che abita nei social.
Ma la giustizia — quella vera, quella
che dovrebbe abitare nelle aule e nelle
coscienze — non può fondarsi sul
consenso, né sulle mode morali del
momento.
E se un innocente può ancora essere
rovinato con la leggerezza con cui si
scorre un video, allora il problema non
è l’etica della forma: è la
nostra indifferenza.