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© Gabriele Vitella

Un blog che vuol essere un caffè con le Muse.

S
enza l’Arte non potremmo essere vivi.


 
  25 Ottobre 2025

 
  Dalle corde alle cuffie: un’anatomia generazionale del suono  
 

 

Il rumore del tempo

 C’è un suono che accompagna ogni epoca, e non è mai soltanto musica. È il fruscio dell’aria che vibra attorno a una generazione, la sua maniera di esistere nel tempo, di occupare lo spazio acustico del mondo. Ogni epoca crede di aver trovato la propria voce, e ogni epoca, puntualmente, finisce per odiarla quando la riascolta nei ricordi.

Il suono, prima ancora che linguaggio, è un’identità. È ciò che permette al gruppo di riconoscersi senza bisogno di parole. Gli adulti percepiscono solo il rumore; i giovani, invece, vi leggono un codice segreto, un’intesa non scritta. Poi, quando gli anni passano, ciascuno si sorprende a trovare quel rumore insopportabile — come il ticchettio di un orologio che, un tempo, scandiva i battiti del proprio entusiasmo.

Nel corso dei decenni, il rapporto fra generazioni e musica ha mutato direzione come una corrente marina. La Generazione X credeva che la musica fosse una bandiera; la Y l’ha ridotta a colonna sonora personale; la Z l’ha trasformata in contenuto; e la nascente Alpha la sta rendendo un puro sottofondo, un’emanazione ambientale. Non è una decadenza, ma una metamorfosi: il passaggio da un ascolto condiviso a una diffusione diffusa, dove la canzone non si possiede, ma si attraversa — come l’aria condizionata di un centro commerciale.

Eppure, in questo scivolare del suono da rito a routine, resta un filo comune: il desiderio di riconoscersi attraverso qualcosa che non si vede. Forse l’unico residuo di sacro rimasto nella nostra epoca digitale è proprio questo — un brano che ci risuona dentro, anche solo per pochi secondi, e ci illude, ancora una volta, di appartenere a qualcuno, o almeno a un ritmo.

 

Il suono come appartenenza — Generazione X

Per chi è nato nella seconda metà del Novecento, la musica non era un prodotto: era un territorio. Si entrava in essa come si entra in una città straniera, con rispetto e curiosità, pronti a perdersi. Ogni disco era una mappa, ogni lato B una deviazione segreta.
L’ascolto era un atto solenne, quasi liturgico. Si chiudeva la porta, si abbassavano le luci, e l’ago del giradischi diventava un piccolo sacerdote che officiava il rito del tempo.

Il suono, allora, aveva ancora il peso delle cose materiali. Le canzoni avevano una durata precisa, i vinili un odore, le copertine una grafia che si riconosceva a distanza. Ma, soprattutto, la musica era collettiva: non la si ascoltava da soli, la si viveva insieme. Un concerto, un walkman condiviso, una radio sintonizzata male bastavano a creare una comunità.

La Generazione X — quella cresciuta tra il disincanto post-ideologico e la malinconia del futuro promesso — trovò nella musica il proprio alfabeto di resistenza. Ogni riff era un “no” pronunciato con orgoglio, ogni testo un manifesto di fragilità in un mondo che fingeva coerenza.
E così, mentre il mondo imparava a chiamare “mercato” ciò che prima si chiamava “cultura”, questa generazione imparava che la musica non serviva a fuggire, ma a restare.

Forse è per questo che, ancora oggi, chi appartiene a quella stagione tende ad ascoltare i suoni nuovi con diffidenza, come chi rivede la casa d’infanzia trasformata in un centro commerciale. Non è nostalgia, è solo che il suono — per loro — era un modo per dire: noi ci siamo. E ora che quel “noi” si è dissolto nei pixel, resta un silenzio che sa di eco più che di assenza.

 

Il suono come archivio — Generazione Y

Con la Generazione Y, la musica smette di essere una bandiera e diventa una collezione privata. È la stagione del passaggio dal vinile al file, dal gesto al clic. La rivoluzione non è nel suono, ma nel modo in cui esso viene conservato: non più inciso, ma salvato.
La musica non si “compra”, si “scarica”. Non si custodisce in uno scaffale, ma in una cartella dal nome ambiguo: New Folder (2).

È il tempo dei pionieri digitali, quelli che hanno scoperto l’idea che tutto il mondo potesse stare in un disco rigido. Il suono, da promessa di comunità, diventa promessa di accesso: l’importante non è partecipare, ma possedere. Il piacere dell’ascolto si trasforma in quello dell’accumulo. Non più dieci dischi amati fino all’usura, ma diecimila brani ascoltati a metà.

Eppure, in questa frenesia dell’archiviare, si nasconde un’ansia di perdita. Il gesto di salvare diventa un modo per trattenere il tempo, come chi fotografa un tramonto invece di guardarlo. La Generazione Y è quella che ha imparato a temere il silenzio delle cuffie scollegate, perché in quel silenzio si nascondeva la domanda più antica: che cosa resta, quando tutto è disponibile?

Così la musica, per loro, si è fatta museo interiore. Ogni playlist è una teca, ogni brano un fossile emotivo. È la prima generazione a non avere paura del frammento, ma a sentirsi rassicurata da esso. L’unità del disco viene sostituita dal mosaico della memoria.
E come in ogni museo, anche qui si cammina in punta di piedi, temendo di toccare qualcosa che potrebbe rompersi: l’illusione di essere ancora connessi a un mondo che suona, ma non parla più.

 

Il suono come contenuto — Generazione Z

Con la Generazione Z, il suono perde la sua durata e diventa evento. Non più una traccia da seguire, ma un frammento da consumare. È il tempo dello scroll, del “dieci secondi e via”, dell’emozione sintetica e immediata.
La musica non accompagna più le immagini: le insegue.

Ogni brano è un filtro, un frammento di atmosfera che deve adattarsi a un gesto, a una coreografia, a una story. Il suono è diventato un’estensione del volto, una forma di espressione estetica tanto effimera quanto identitaria. Il testo non è più importante: a contare è la temperatura emotiva di pochi secondi di ritmo.
Non si canta: si performano emozioni prefabbricate, come se ogni clip fosse una confessione sincronizzata al metronomo dell’algoritmo.

La Generazione Z non ascolta per ricordare, ma per mostrare di ascoltare. La musica è un linguaggio visivo: il suono serve a definire chi sei per la durata di un video. E quando il video finisce, finisce anche il senso di appartenenza.
Il brano virale di oggi è il silenzio di domani, cancellato da un nuovo trend che gli somiglia in tutto tranne che nella data di pubblicazione.

Eppure, sarebbe troppo facile liquidare questa generazione come distratta. In realtà, ciò che fanno è ricomporre l’esperienza musicale come gesto istantaneo: un atto di presenza, una fiammata di identità.
Hanno trasformato l’ascolto in un linguaggio iconico, una grammatica del corpo e dell’immagine. È la prima volta che la musica non descrive il mondo, ma si lascia descrivere da esso.

Forse, tra un loop e un beat drop, la Generazione Z sta dicendo qualcosa di più sottile: che l’arte non deve più durare per essere vera. Basta che accada.

 

Il suono come ambiente — Generazione Alpha

La Generazione Alpha nasce immersa in un paesaggio sonoro permanente. Non ascolta la musica: ci vive dentro. Il suono è ovunque — negli oggetti, nelle stanze, negli algoritmi — una colonna sonora continua che nessuno ha scelto davvero, ma che tutti accettano come parte dell’aria respirata.
È la prima generazione per la quale il silenzio non è assenza, ma anomalia.

La musica è diventata un’infrastruttura invisibile, come la luce elettrica o la rete Wi-Fi. Scorre in sottofondo, modula l’umore, accompagna l’attenzione. Non chiede ascolto, si limita a esistere. È la trasformazione finale del suono da rito a clima, da linguaggio a funzione.
Eppure, in questa apparente neutralità, c’è qualcosa di vertiginoso: l’idea che la musica non serva più a comunicare, ma a regolare la percezione del mondo.

Per l’Alfa, ogni ambiente sonoro è personalizzato, calibrato su misura da un algoritmo che impara a conoscere i battiti del cuore e i momenti della giornata. L’esperienza estetica si è fusa con la biochimica: il playlisting è la nuova farmacologia dell’anima.
Non si tratta più di ascoltare per sentirsi vivi, ma di lasciarsi accompagnare per restare stabili.

Così, mentre i loro predecessori cercavano nel suono una bandiera, un archivio o una scena, gli Alpha vi trovano una forma di quiete.
Il rumore del mondo si è dissolto in un mormorio digitale — e forse è proprio lì, in quell’omogeneità senza attrito, che si nasconde la vera inquietudine: l’idea che nessun suono ci appartenga più davvero, perché tutti ci abitano prima che possiamo riconoscerli.

 

Il silenzio come rivoluzione

Ogni epoca, dopo aver moltiplicato i propri suoni, finisce per desiderare il silenzio. Non come vuoto, ma come spazio di respiro. È la vendetta della pausa contro la frenesia, dell’ascolto contro la produzione.
Il silenzio è ciò che rimane quando il rumore del mondo si è consumato da solo — un’eco senza origine, una domanda che nessuno ha più il tempo di formulare.

Forse la prossima rivoluzione culturale non sarà fatta di nuove voci, ma di nuove assenze.
Dopo secoli in cui abbiamo creduto che la musica servisse a dire qualcosa, potremmo scoprire che serve, invece, a imparare a tacere meglio.
Non il silenzio dell’indifferenza, ma quello dell’attenzione: il silenzio come forma di ascolto puro, come disponibilità al mondo.

L’uomo contemporaneo ha delegato il ritmo ai dispositivi, l’ispirazione agli algoritmi, l’emozione alle notifiche. Ma in qualche parte della memoria, tra un file cancellato e un suono dimenticato, resta l’istinto arcaico di fermarsi ad ascoltare senza scopo.
È in quel gesto — minimo, inattuale, quasi scandaloso — che può ancora nascere una forma di libertà.

Il futuro, forse, non sarà di chi avrà più musica, ma di chi saprà ascoltare il silenzio senza paura.
E quando anche quel silenzio diventerà un bene raro, allora torneremo a comprendere che la musica, dopotutto, non è mai stata un suono: era solo il modo in cui il tempo imparava a sentirci vivi.

 

 
 
Gabriele Vitella
 
 

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