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© Gabriele Vitella

Un blog che vuol essere un caffè con le Muse.

S
enza l’Arte non potremmo essere vivi.


 
  14 Novembre 2025

 
  La montagna
come misura dell’anima
 
 

 

Ci sono libri che non si leggono soltanto: si ascendono.
Libri che chiedono non un atto d’intelligenza, ma un atto d’amore; che domandano al lettore di abbandonare la pianura del commento e salire, passo dopo passo, lungo un sentiero di contemplazione.
Il cielo più vicino di Vittorio Sgarbi appartiene a questa stirpe rara di opere che riconciliano il pensiero con la visione, la parola con il silenzio.
È un libro che non racconta la montagna: la trasfigura.

La montagna di Sgarbi è idea e sostanza, spirito e pietra, respiro e misura.
Attraverso sette secoli di pittura e di memoria, dal Trecento fino alle soglie del Novecento, l’autore ricostruisce non la storia di un tema iconografico, ma l’itinerario della coscienza occidentale verso la propria altezza perduta.
Giotto apre il cammino, innalzando la roccia francescana a simbolo della fede incarnata; Masolino ne addolcisce la visione, e nella sua limpida serenità il mondo sembra specchiarsi in un’aria più mite.
Poi vengono Piero della Francesca e Bellini, Turner e Friedrich, Courbet e Segantini, fino a Ghirri, Buzzati, Musić: ognuno lascia, nel libro, il segno di un’ascesa compiuta o interrotta, di una nostalgia del cielo che non si estingue mai.

Sgarbi non scrive come un critico, ma come un viaggiatore dell’assoluto.
Cammina fra le opere come fra alture interiori, e ogni nome, ogni dipinto, ogni visione diventa una tappa di pellegrinaggio estetico.
La sua parola ha il passo del montanaro e la leggerezza del vento d’alta quota: conosce la fatica, ma anche la gioia di arrivare dove l’aria si fa rarefatta e pura.
Si avverte, sotto ogni riga, un ritmo di respirazione lenta, quasi liturgica; una musicalità segreta che trasforma la descrizione in preghiera, la critica in canto.

Quel che più colpisce è la coerenza luminosa del pensiero.
L’autore attraversa i secoli senza smarrire la bussola della bellezza, rifiutando l’arroganza di chi misura l’arte col metro dell’oggi.
Per lui la montagna non è metafora del progresso, ma della memoria; non è dominio, ma ascolto.
Ogni salita è ritorno.
E quando parla delle vette dipinte, delle nevi, dei cieli che si piegano sulle rocce, non fa storia dell’arte: fa teologia naturale, come se riprendesse il filo di una conversazione interrotta tra l’uomo e il divino.

Il libro mi è piaciuto profondamente, e non solo per la limpidezza dello stile o per la vastità della cultura che lo anima.
Mi ha toccato per il suo tono interiore, per quel senso di intimità che unisce l’erudizione alla confidenza dell’anima.
L’ho letto come un viaggio di riconciliazione, come una lunga marcia verso la purezza dello sguardo, come un dialogo muto con la parte migliore di noi stessi.
È raro, oggi, trovare un testo che restituisca alla contemplazione la sua dignità perduta: Sgarbi ci riesce, con semplicità e fermezza, ricordandoci che la bellezza è sempre un esercizio di verità.

E sublime è anche la scelta iconografica che accompagna il volume: tavole disposte con una sapienza che pare musicale, accostamenti che respirano come accordi, immagini che non illustrano ma amplificano il testo.
Si ha la sensazione di sfogliare non un saggio, ma un breviario di immagini, un rosario visivo che scandisce la liturgia del vedere.
Ogni riproduzione – da Giotto a Friedrich, da Masolino a Ghirri – è scelta per risonanza interiore, come se il Professore avesse disposto le opere secondo il ritmo di un cuore contemplante.
L’effetto è straordinario: la parola e l’immagine si inseguono, si rispondono, si completano.

Nei capitoli conclusivi, là dove il discorso si fa più personale, Sgarbi ritrova la voce del testimone: colui che ha visto e vuole tramandare.
Parla della montagna come di una soglia fra umano e divino, di un confine dove la pietra diventa pensiero e la luce conoscenza.
E in quelle pagine finali, intitolate La misura dell’anima, l’arte si trasforma definitivamente in filosofia del limite.
Salire significa comprendere di non poter possedere: significa accettare che l’eterno si lascia solo sfiorare, mai tenere.

Nel tempo in cui tutto scende e si dissolve, Il cielo più vicino ci ricorda la necessità di risalire.
Sgarbi ci invita a respirare l’aria chiara delle altezze, a guardare il mondo da quell’angolo di purezza che la pittura, più di ogni altra arte, sa evocare.
È un libro che riconcilia la conoscenza con la grazia, la critica con la preghiera, l’intelletto con la nostalgia.
Si chiude, e resta nel lettore come un’eco di silenzio, come una luce che continua a salire dentro di noi: il cielo più vicino, davvero.

 

 
 
Gabriele Vitella
 
 


Informazioni bibliografiche:

 

Vittorio Sgarbi, Il cielo più vicino
Edizioni La nave di Teseo, 2025
Collana: Le Onde
Formato: brossura / ebook

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